| SECONDA LEZIONE: LA LOGICA DA EPIMENIDE AD EUBULIDE. L'idea che, come nell'etica è bene ciò che non è male, e non viceversa, così anche nella logica sia vero ciò che non è falso, e non viceversa, è oggi diventata popolare grazie alla « filosofia » di Karl Popper, che ha notato come la scienza non sia mai in grado di verificare le proprie teorie, mentre possa a volte falsificarle. Infatti, le conseguenze che si possono trarre da una qualunque teoria sono infinite, ma noi non siamo condannati a vivere in eterno: né come individui, né come specie. Se anche ne avessimo la possibilità teorica, non avremmo, dunque, il tempo pratico di verificare le infinite conseguenze di una teoria e di convincerci che essa è vera. Abbiamo, però, la possibilità di confutare una conseguenza isolata e, quindi, convincerci che una teoria è falsa. Naturalmente, la cosa è fattibile soltanto per le teorie che Popper chiama scientifiche: quelle, cioè, che fanno previsioni che si possono confutare. Le altre, quelle che sono inconfutabili anche in linea di principio, appartengono al mare magnum della superstizione umana. In altre parole, la scienza di oggi si comporta come i tribunali di ieri (quelli, cioè, precedenti l'era di Bush...) in cui un imputato veniva considerato innocente fino a prova contraria e non viceversa. Il che significa, o significava, che mentre è possibile provare la colpevolezza di qualcuno, non si può mai essere certi della sua innocenza. Allo stesso modo, in medicina è possibile provare l'infermità di qualcuno, ma non si può mai essere certi della sua salute: infatti, molti si scoprono malati o addirittura muoiono, subito dopo che un check-up ha decretato la loro forma perfetta... Ciò detto, dobbiamo ora rivolgere più direttamente la nostra attenzione alla verità e falsità. Le quali, come spesso succede ai concetti astratti, agli inizi erano rappresentate concretamente come dèi antropomorfizzati. In Egitto, ad esempio, «verità» si diceva Ma'at ed era il nome di una divinità singolare: sposa di Toth, al quale Platone attribuisce nel Fedro l'invenzione della scrittura, e madre del grande Amon venerato a Tebe, essa era più un concetto che una persona e costituiva una versione di ciò che i Greci avrebbero chiamato lògos e i cristiani verbum. Ma'at era raffigurata come una ragazza con una piuma di struzzo sul capo e, oltre a rappresentare l'ordine cosmico, presiedeva al giudizio dei morti. Questo avveniva nella camera della doppia verità, cioè la verità unita alla giustizia, che da lei prendeva il nome di Ma'aty. Su un piatto di una bilancia veniva posto il cuore del defunto e sull'altro piatto la piuma di Ma'at: secondo che il cuore fosse o non fosse più pesante della piuma, il defunto veniva condannato al regno delle tenebre o assolto e promosso al regno della luce. Il giudizio era presieduto da Osiride e il collegio giudicante consisteva di 42 magistrati divini, in rappresentanza delle 42 province egiziane, ognuno dei quali interrogava il defunto riguardo a uno dei 42 capi d'accusa elencati nel capitolo cxxv del Libro dei morti: essi non erano altro che la prima versione dei comandamenti biblici, che duemila anni dopo la loro formulazione originaria furono imposti da Mosè agli Ebrei. Di fronte a ciascuno dei 42 dèi (una delle poche raffigurazioni complete dei quali si trova nel papiro di Torino) il defunto ripeteva la formula della confessione negativa: «Non ho fatto questo». Il cuore veniva poi pesato da Anubis, il verdetto annunciato da Toth e l'accusato accompagnato da Horus di fronte a Osiride, che in caso di assoluzione lo dichiarava ma'a kheru, « veritiero ».
Quanto ai Greci, essi avevano non soltanto un Dio della verità, ma anche uno della falsità, vale a dire, rispettivamente, Apollo e Hermes. I due erano fratellastri, in quanto figli di Zeus, ed erano stati partoriti in maniere contrapposte: uno da Latona su un prato di giorno a Delo, l'altro da Maia in una caverna di notte in Arcadia. La gelosia di Hera, moglie legittima del padre degli dèi, aveva impedito all'amante del marito di partorire Apollo sulla terraferma: Latona si era, dunque, rifugiata sull'isola fluttuante di Delo, vagante per i mari, che da quel momento fu miracolosamente ancorata nell'Egeo da quattro colonne dorate, incoronata dalle Cicladi. Essa divenne sede di uno dei santuari di Apollo e il suo suolo non poteva essere profanato né dalla nascita, né dalla morte di esseri umani. Il più importante santuario di Apollo, però, era quello di Delfi, costruito dove il Dio aveva ucciso il serpente Pitone. Sulle sue pareti erano riportate le sentenze dei sette saggi, tra le quali le celeberrime «conosci te stesso» e «niente di troppo ». Al suo interno si trovava una pietra conica o sferica, a seconda delle versioni, chiamata omphalós, che si credeva fosse l'ombelico del mondo, e in una stanza sotterranea, sopra una fenditura della roccia dalla quale esalava forse un gas allucinogeno, stava il tripode dal quale profetava la Pizia, il più famoso oracolo di Apollo, con sentenze che sfidavano le leggi della logica. La cosa non sorprende, perché la verità e la falsità simboleggiate da Febo e Hermes erano passibili di conciliazione o di commistione, perlomeno ai tempi di Omero. Non è, infatti, un caso che nell'Iliade i loro ruoli siano invertiti: il poema si apre con l'ira di Apollo e la peste da lui provocata nel campo dei Greci e si chiude con Hermes che scorta Piiamo alla tenda di Achille per i colloqui di pace fra i Greci e i Troiani. Evidentemente, la contrapposizione fra verità e falsità, sulla quale si basa la logica, è posteriore al poema. Già in tempi omerici, invece, la verità era collegata alla luce. Nell'Inno ad Apollo dell'ottavo secolo p.e.V., ad esempio, si dice che Delo risplendette di azzurro nel momento della sua nascita e le dee che vi assistevano furono abbagliate da un turbinio multicolore. Febo fu, dunque, dapprima associato al Sole, con l'epiteto di Febo, «Radioso», e in seguito le sue qualità continuarono a crescere vertiginosamente, fino a che egli divenne una sorta di « superdio » dell'ecumenismo panellenico. D'altronde, lo stesso nome Apollon significa letteralmente «non molti», cioè «uno».
Non stupisce, dunque, che Dante lo invochi nel primo canto del Paradiso, chiamandolo «buon Apollo» e «divina virtù», né che egli finisse col venir associato a Cristo, che per sua stessa ammissione si considerava « la Verità » e affibbiava, invece, al Diavolo la patente di «padre della menzogna ». La contrapposizione fra vero e falso si ritrova, dunque, personificata anche nel Cristianesimo, nel quale Gesù e il Diavolo costituiscono gli analoghi non solo di Apollo e Hermes, ma anche della luce e delle tenebre. Addirittura, il 25 dicembre, che nella mitologia cristiana commemora dal 353 e.V. il Natale del Signore, altro non è che la festa del Sol Invictus siriano, fissata dall'imperatore Aureliano nel 274 e.V., dopo che la divinità era stata introdotta a Roma dall'imperatore Eliogabalo una cinquantina d'anni prima. La ricorrenza commemora il momento in cui il Sole «risorge» e ricomincia la sua «ascensione» nel cielo, tre giorni dopo la sua « morte » al solstizio d'inverno del 22 dicembre (chi ha orecchi per intendere, intenda...). Per tornare a Cristo, l'episodio più noto in cui egli ripetè la sua affermazione di essere «la Verità» è certamente il processo di fronte a Pilato. Ma il governatore romano non si lasciò impressionare e ribattè: «Che cos'è la verità?», dopo di che, se ne andò senza aspettare risposta. E fece bene, per almeno due motivi. Anzitutto, perché neppure Gesù poteva definire la verità: come vedremo tra breve, infatti, essa è soltanto una delle tante illusioni metafisiche che la logica è riuscita a decostruire. Inoltre, anche se ci fosse stata una definizione, Pilato non avrebbe potuto capirla: per i Romani, infatti, la veritas era un concetto giuridico e non logico. Letteralmente, vero era ciò che si poteva verificare, « rendere vero », con un verdictum, una « dichiarazione di verità », e dunque qualcosa da accettare sulla parola dei giudici, con un atto di fede. Le sentenze, infatti, non stabiliscono la verità esterna dei fatti, ma solo la coerenza interna di un impianto accusatorio o difensivo. È proprio su questa nozione giuridica che si è creato l'equivoco, ancor oggi tramandato, che si possa parlare di «verità di fede» da affiancare alle verità di ragione: un equivoco tramandato da parole come "vera", che in italiano significa fede matrimoniale e in russo fede religiosa, o truth, che deriva dall'anglosassone treowthu, «fede».
Per evitare l'equivoco, sarebbe bene, invece, parlare più semplicemente di pregiudizi e contrapporti alla verità nel senso greco: la quale è l'opposto del falsum latino, cioè dell'inganno. Il termine greco originale era infatti alétheia: un concetto che si potrebbe tradurre con « non latenza » o « non latitanza », e la cui natura negativa si manifesta ancora ai nostri giorni nel fatto che nelle lingue europee, in genere, esiste un verbo per «mentire», ma non uno per «dire la verità». I termini «latenza» e «latitanza», così come «letargo», derivano dal latino latere, «rimanere nascosto», il quale a sua volta deriva dal greco léthe, «dimenticanza» o « oblio »: la verità è, dunque, « palese » e «indimenticabile » o, almeno, « indimenticata ». Lethe (Oblivio) era personificata come dea dell'oblio, figlia di Eris (Discordia) e naturalizzata nel fiume nel quale le anime morte si immergevano per dimenticare la vita passata e prepararsi alla reincarnazione. O, nell'Inferno di Dante, la sua versione riveduta e corretta, «là dove vanno l'anime a lavarsi / quando la colpa pentuta è rimossa ». Naturalmente, come ci si può aspettare, Lethe aveva un contrario: Mnemosine (Memoria, poi diventata Giunone Moneta, o « Ammonente »), madre delle Muse, dea e fiume del ricordo (che ha dato il nome alle monete perché nel suo tempio stava la zecca). Oltre a Lethe, i Greci avevano anche un'altra dea dell'oblio: la ninfa Calipso, dal capo velato, il cui nome significava, appunto, «Velata», «Coperta», «Nascosta». Nell'Odissea ella tiene Odisseo prigioniero per sette anni sull'isola di Ogigia, dandogli tre figli e cercando inutilmente di fargli dimenticare Penelope. Lethe sta ad alétheia come Calipso sta ad apokàlypsis: «rivelazione», «disvelamento», «scoperta» (il significato odierno di «apocalissi» come «catastrofe» deriva dalle truculente visioni descritte da san Giovanni nell'omonimo libro che conclude il Nuovo Testamento: un passaggio dalla « rivelazione » alla « rivoluzione », che è la traduzione di katastrophé). Letteralmente, dunque, apokàlypsis si scopre, si svela o si rivela, mentre alétheia si palesa, affiora o emerge e la veritas si stabilisce, si determina o si verifica.
Scendendo dall'Olimpo in terra, i Romani consideravano i Greci dei bugiardi patentati. Come disse Cicerone in In difesa di Lucio Valerio Fiacco (IV, 9): "Concedo loro le lettere, ammetto la loro conoscenza di molte arti, non nego la loro grazia nel parlare, l'acume di ingegno, l'abbondanza di parole. Ma il rispetto per le testimonianze e la verità, questa nazione non li ha mai coltivati". Dal canto loro, i Greci riconoscevano come campioni nazionali di menzogna i Cretesi e arrivarono a coniare il sostantivo kretismós, « cretismo », come sinonimo di falsità (a scanso di equivoci, la parola «cretino » non deriva invece dai Cretesi, ma dai Cristiani: crétin indicava, nel Settecento, un cristiano delle regioni alpine della Savoia, nelle quali era diffusa la disfunzione tiroidea che oggi si chiama appunto cretinismo). D'altronde, per mentire bisogna essere tutt'altro che cretini: semmai, è a dire la verità che si rischia di fare la figura degli ingenui o degli ottusi; infatti, Odisseo, l'eroe che nell'Iliade e nell'Odissea viene presentato come il mentitore per eccellenza, è ammirato e lodato dalla stessa Alena, dea della saggezza. Non da Achille, però, che nel primo poema (IX, 395-403) lo chiama « divino senno », ma non gli manda a dire che « odia quanto le porte dell'Inferno chi pensa una cosa e ne dice un'altra ». Commentando questo episodio nell'Ippia Minore, il suo dialogo sulla falsità, Platone farà osservare a Socrate che è più sapiente chi mente sapendo di mentire, di chi dice la verità perché non sa farne a meno. Poiché Ulisse ama giocare pericolosamente, in più occasioni si spaccia nell'Odissea per un cretese: lo dice nel XIII libro ad Atena, che gli si presenta nelle vesti di un pastorello; lo ripete nel XIV al vecchio servo Eumeo, questa volta travestendosi lui da mendicante; e lo reitera nel XIX a Penelope, pretendendo addirittura di essere il nipote del re Minosse. La pericolosità del gioco di Ulisse sta nel fatto che, se è vero che i Cretesi sono bugiardi, affermare di essere un cretese significa ammettere di mentire. Dunque, tutto ciò che si dice dovrebbe essere messo in dubbio, in particolare il fatto di essere un cretese. Infatti, Ulisse non lo è e dice la verità mentendo. Che succederebbe, però, se invece di Ulisse, a dire di essere un cretese fosse davvero un cretese? Qui il gioco finirebbe, perché questa è semplicemente una verità. In altre parole, non è vero che tutti i Cretesi mentono sempre, nonostante ciò che pensava Cicerone: ovvero, nessuno è perfetto. Verso il VI sec. p.e.V. ci fu, però, un cretese, di nome Epimenide, che passò alla storia per aver affermato: « I Cretesi sono bugiardi ». Il che, presumibilmente, andava appunto interpretato come: « Tutti i Cretesi mentono sempre ». Poiché Epimenide era davvero cretese, la sua affermazione non poteva essere vera. E allora doveva essere falsa, cioè doveva esserci un cretese che a volte diceva il vero (probabilmente, la pecora bianca della comunità). Niente assicura, però, che quel cretese fosse proprio Epimenide. E se anche lo fosse stato, niente assicura che la verità, che almeno una volta doveva scappargli, fosse proprio quella da lui pronunciata in quell'occasione. In altre parole, nonostante il clamore che la cosa suscitò, non c'era nessun problema: semplicemente, la frase pronunciata da Epimenide era falsa, come d'altronde lui stesso aveva implicitamente preannunciato. Probabilmente, il clamore derivava dall'aura che lo circondava. Epimenide aveva, infatti, dormito un lungo sonno di 57 anni nella grotta del Dio cretese dei misteri e si era sottoposto a digiuni interminabili, nutrendosi soltanto di una pozione vegetale suggeritagli dalle Ninfe e conservata in uno zoccolo di bue. Quando morì, si scoprì che era tutto tatuato, secondo la moda degli sciamani, e si capì da dove aveva derivato il potere di purificare Atene da una pericolosa contaminazione. Ma, nonostante l'impressionante pedigree del suo presunto inventore, la prima testimonianza sul detto di Epimenide è del III sec. p.e.V., nell'Inno a Zeus di Callimaco, nel quale il poeta si pone il problema di decidere dove sia effettivamente nato il padre degli dèi: se a Creta, sul monte Ida, o in Arcadia, sul Liceo. Poiché la maggioranza propendeva per la prima località, Callimaco opta per la seconda, sostenendo argutamente che, proprio perché i Cretesi sono bugiardi, mentono quando sostengono che Zeus sia nato a Creta e si tradiscono in maniera plateale quando mostrano ai turisti la sua tomba, dimenticando che gli dèi sono immortali. Ma smettiamola di tormentare i poveri Cretesi i quali, fra l'altro, erano solitamente discordi fra loro e non potevano, dunque, sostenere tutti di essere bugiardi. Sembra, infatti, che essi trovassero un accordo soltanto di fronte a un nemico comune, nel qual caso costituivano quello che ancor oggi si chiama un sincretismo, una «confederazione cretese» (anche se, a partire da Erasmo da Rotterdam, il termine è passato a denotare la confluenza di più dottrine filosofiche o religiose diverse, in senso figurato). Eliminare il riferimento ai Cretesi dalla storia precedente non è difficile, perché basta che qualcuno affermi direttamente: «Io mento sempre». Ma le cose rimangono come prima: poiché la frase non può essere vera, dev'essere falsa. Dunque, chi parla deve a volte dire il vero, ma non è detto che lo stia dicendo in quel momento. Fu il megarico Eubulide a scoprire, nel IV sec. p.e.V., che invece le cose cambiano completamente se qualcuno afferma: « In questo momento, sto mentendo ». Perché allora non solo, come al solito, la frase non può essere vera, perché altrimenti sarebbe falsa. Ma non può nemmeno essere falsa, perché altrimenti sarebbe vero il suo contrario e, dunque, sarebbe vera. E questo non è più soltanto un rompicapo, ma una vera e propria contraddizione: una frase, cioè, «detta contro (se stessa)», nel senso che è vera, se è falsa e falsa, se è vera. O, se si preferisce, un paradosso: cioè un'affermazione che va « oltre l'opinione comune » e, dunque, risulta sorprendente o inattesa. O, ancora, un'antinomia qualcosa, cioè, che va « oltre le regole », in questo caso del pensiero. La frase « sto mentendo » detta, appunto, paradosso o antinomia del mentitore, è il granello di sabbia che inceppa il meccanismo del linguaggio: bastano due parole a mettere in crisi le sue pretese metafisiche e a dimostrare che le nozioni di verità e falsità sono contraddittorie. O meglio, che molte sono le verità e le falsità (con la minuscola), ma non c'è nessuna Verità o Falsità. Il che era, forse, ciò che Gesù intendeva suggerire affermando, da un lato, di essere la Verità e, dall'altro, che il suo regno non era di questo mondo. Naturalmente, non c'è niente di sorprendente nel fatto che la metafisica risulti essere un'illusione: l'avevamo già capito dando uno sguardo alla storia delle parole astratte, come « spirito » e « anima » e scoprendo che troppo spesso esse sono scatole vuote che non contengono niente. Semmai, la cosa sorprendente è che a volte basti così poco per smontare le pretese della metafisica, che si rivela essere semplicemente una malattia infantile e infettiva del pensiero e del linguaggio. E poiché uno dei sintomi dell'infantilismo è la testardaggine, i metafisici si sono incaponiti per millenni nel tentativo di trovare «soluzioni » al paradosso del mentitore, così come agli altri argomenti antimetafisici che discuteremo nel seguito. L'unico risultato è stato, però, un continuo raffinamento della decostruzione, che ha esposto in maniera ancora più evidente e precisa le difficoltà del linguaggio. Ad esempio, nel XIV secolo Giovanni da Buridano (quello dell'asino, morto di fame perché indeciso fra due equidistanti balle di fieno) ha mostrato che il problema del mentitore non sta nell'autoreferenza, cioè nel fatto che egli si riferisce a se stesso. Il paradosso si ripropone, infatti, allo stesso modo nel dialogo seguente, in cui nessuno dei due interlocutori fa riferimento a se stesso e ciascuno si riferisce, invece, all'altro: Socrate: « Platone mentirà nella frase seguente ». Platone: « Socrate ha detto il vero nella frase precedente ». Perché, se Socrate ha detto il vero, allora Platone ha mentito e, dunque, Socrate non ha detto il vero. E, se Socrate ha mentito, allora Platone ha detto il vero e così ha fatto Socrate. Idem per Platone. Volendo, le cose si possono rendere ancora più semplici, considerando la riscrittura dell'esempio di Buridano proposta da Philip Jourdain nel 1913: "La frase seguente è falsa". "La frase precedente è vera". Alcuni scolastici immaginarono che ci fosse, invece, una confusione tra pezzi di frase che vengono usati nel discorso, per quello che dicono, e pezzi di frase che vengono soltanto menzionati, per quello che appaiono. Nel secondo caso, i pezzi dovrebbero essere scritti fra virgolette, come in: «Un monosillabo» consiste di sei sillabe, che è vero come sta scritto, perché l'espressione «un-mo-no-sil-la-bo» consiste effettivamente di sei sillabe, ma sarebbe falso se non ci fossero le virgolette, perché un monosillabo consiste, ovviamente, di una sola sillaba. Questa volta il problema sembra più grave, ma Willard Quine ha trovato, nel 1962, una versione del paradosso del mentitore che tiene conto della distinzione fra uso e menzione. Semplicemente: « E' falsa se preceduta dalla sua menzione » è falsa se preceduta dalla sua menzione. Il soggetto della frase è la parte fra virgolette, che è anche la menzione della parte senza virgolette e la precede. Dunque, l'intera frase dice di se stessa di essere falsa ed è, come al solito, contraddittoria. Insomma, sembra proprio che non ci siano vie d'uscita: comunque la si metta, la metafisica della verità e della falsità non si può salvare interamente. Parzialmente sì, almenoentro certi limiti, come vedremo nel seguito: ad esempio, confinando il linguaggio naturale entro un recinto formale, oppure imbrigliandolo per impedirgli di lanciarsi troppo facilmente al galoppo, come lo spronano invece a fare i paradossi. Bisogna, però, riconoscere che l'argomento di Eubulide è una bella storia, tra l'altro coi rari vantaggi dell'acutezza e della concisione. Non stupisce, dunque, che essa sia stata variamente utilizzata a fini letterari, oltre che filosofici e logici. CONTINUA
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