APPROFONDIMENTI DI SCIENZE, per completare gli appunti.

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cuorimeccanici
icon1  view post Posted on 26/10/2008, 22:21




PRIMA LEZIONE: La logica da Neandertal a Omero.
La logica è, per definizione, lo studio del lògos: cioè del pensiero e del linguaggio o, meglio, del pensiero espresso attraverso il linguaggio. Questo significa che, affinché ci possa essere una logica, ci deve essere un linguaggio: si tratta, dunque, di una storia relativamente recente che, però, ha richiesto una preparazione lunga. Voglio dire che il linguaggio è un'invenzione, o una scoperta, di Homo sapiens sapiens: anzi, la sua più importante invenzione, o scoperta, quella che gli ha permesso di sgominare la concorrenza di suo "cugino" Homo sapiens neanderthalensis, che pure aveva un volume cranico, e quindi un cervello, più grosso del suo e che, per qualche decina di migliaia di anni, aveva dominato l'Europa.
La gestazione del linguaggio è stata, dunque, lunghissima: risale a un centinaio di migliaia di anni fa. Possiamo, dunque, soltanto immaginare come la cosa sia avvenuta, per lenta evoluzione dalle grida primordiali che servivano a comunicare ai propri simili pericoli in arrivo o il ritrovamento del cibo. Lentamente, questi suoni sono stati elaborati, grazie anche a una particolare predisposizione fisiologica che l'uomo di Neandertal non aveva e che ha permesso a Homo sapiens sapiens di articolare suoni gutturali in gran quantità.
Quella che a noi interessa, però, è una storia molto più recente, che risale a poche migliaia di anni fa. Al momento, cioè, in cui il linguaggio si era ormai evoluto in uno strumento sofisticato di comunicazione, principalmente basato su una tripartizione delle parole in tre categorie fondamentali: i sostantivi, gli aggettivi e i verbi, che servono a indicare oggetti, proprietà e azioni (o stati), come nella frase «Homo sapiens parla». Ciascuna categoria corrisponde a un particolare modo di vedere il mondo e ha dato origine a generi letterali complementari: l'epica, la lirica e il dramma, che si concentrano rispettivamente sui personaggi, i sentimenti e gli eventi. Vedere il mondo sotto la specie degli oggetti o delle proprietà o delle azioni vuol dire osservare ciò che ci circonda da un punto di vista significativo, ma parziale e significa determinare la natura della descrizione della realtà. I bambini, ad esempio, hanno più facilità a distinguere gli oggetti che le azioni e imparano più facilmente i sostantivi che i verbi. In parte la cosa si riscontra anche negli adulti, visto che le lingue parlate moderne hanno, in genere, molti più sostantivi che verbi. In altre parole, il mondo ci appare oggi più "naturale" come insieme di oggetti che come insieme di eventi, benchè non sia sempre stato così; ad esempio, nel greco antico era vero il contrario e i nomi erano in gran parte derivati verbali. Analogamente, in genere nelle lingue il singolare è più freguente del plurale: ciò significa che riconosciamo più facilmente gli individui che non le specie, i generi e gli insiemi. Inoltre, il plurale generico è più frequente di quello specifico (duale per le coppie, triale per le terne, eccetera): ciò significa che riconosciamo più facilmente le specie, i generi e gli insiemi, che i loro tipi cardinali.
Ovviamente, non per ogni oggetto c'è un nome né per ogni proprietà un aggettivo né per ogni azione un verbo. Anzi, è vero il contrario: soltanto pochissimi oggetti, proprietà e azioni ricevono la nostra attenzione e vengono "battezzati" con una parola. Gli altri dobbiamo farli rientrare in quelli, con un processo di approssimazione che, spesso, diventa di semplificazione della complessità reale. Ma senza semplificazione non ci sarebbero l'astrazione né il pensiero: ad esempio, ogni uomo rimarrebbe un individuo a sé stante e non arriveremmo mai alla concezione dell'umanità.
Il problema principale che il linguaggio e il pensiero devono risolvere è, dunque, di riuscire a mediare tra gli eccessi di proliferazione e di semplificazione del vocabolario: troppe parole rendono la comunicazione difficile, ma troppo poche la banalizzano. Per questo i bambini, con il loro lessico troppo limitato, ci fanno spesso sorridere, così come ci fanno ridere gli adulti che ne sfoggiano, invece, uno troppo complicato. Uno degli scopi della logica, forse il più salutare, è proprio quello di sviluppare strumenti sufficienti a farci ridere di una buona parte delle sedicenti « argomentazioni » dei nostri simili, mostrandoci le une e gli altri nella loro infantile ingenuità...
Il linguaggio è, infatti, una tecnologia e, come tale, può essere usato o abusato. Infatti, una parola è, letteralmente, una parabola ed è "messa a fianco" o "in parallelo" alla realtà; quindi, va interpretata e compresa e si presta anche a essere fraintesa. Ad esempio, le stesse parole che ci permettono di cogliere l'essenza del mondo fisico possono anche illuderci di percepire la presenza di un mondo meta-fisico. Addirittura, ci sono stati alcuni che hanno pensato che il mondo sia posto in essere dal linguaggio e che senza parole le cose non esistano. L'evangelista Giovanni, ad esempio, che iniziò il suo Vangelo con il famoso versetto: « In principio era la Parola e la Parola era presso Dio e Dio era la Parola » o anche il filosofo Heidegger, che affermò: « È la parola che procura l'essere alla cosa» (In cammino verso il linguaggio).
Ora, tutto sta ad intendersi. Se Heidegger voleva dire che le banane, ad esempio, non esistono fino a quando non si inventa la parola "banana", allora la cosa fa appunto ridere: infatti, le scimmie se la ridono e mangiano le banane anche senza saper parlare. Se, invece, Heidegger voleva dire che lo spirito (con la minuscola o la maiuscola) non esiste fino a quando non si inventa la parola "spirito", allora aveva certamente ragione. La dimostrazione che non si sbagliava sta nel fatto che la preoccupazione per un concetto e l'invenzione della relativa parola vanno, di solito, di pari passo. Per non rimanere nel vago, consideriamo, appunto, la storia della parola « spirito », che nelle lingue classiche ha a che fare con la ventilazione polmonare. Ad esempio, nella Genesi Dio alita nelle narici di Adamo la ruakh, il soffio vitale che lo fa iniziare a ventilare e, dunque, a vivere. In sanscrito, i due movimenti di inspirazione ed espirazione di cui si compone la ventilazione polmonare si chiamano brahman e atman, che indicano anche l'espansione il primo e la contrazione il secondo. In greco i due termini si chiamano rispettivamente pneùma e psyché e sono poi confluiti nello spiritus latino. In italiano questi usi riaffiorano quando si « esala lo spirito », nel senso che si cessa definitivamente di respirare o si va dallo pneumologo a farsi curare i polmoni o si aspira una lettera greca se ha un accento che si chiamava pneùma e che noi traduciamo con « spirito ».
Fin qui siamo sul piano fisico e tutto va bene: si sono nominati fenomeni reali che hanno un ovvio significato e le parole permettono di acquistarne coscienza in maniera linguistica. Ma, se ci si lascia prendere la mano, è facile "partire per la tangente", come direbbero i matematici, e considerare ad esempio il brahman come uno spirito cosmico ed esterno e l'atman come uno spirito individuale e interno, arrivando poi a dire che, come l'inspirazione e l'espirazione sono due aspetti complementari di un medesimo processo, così il brahman universale e l'atman personale sono due aspetti complementari di una medesima realtà. Niente di male, finché la parola « spirito » viene usata in senso metaforico e poeticamente evocativo. Ad esempio, nelle Upanishad si leggono bei versi sulla coincidenza di brahman e atman, che viene paragonata alla confluenza dei succhi dei fiori raccolti dalle api di un alveare in un unico miele o dei fiumi di un continente in un unico oceano. Ma molto di male, se si crede che dietro le parole ci debba sempre essere qualcosa e che, dunque, lo spirito cosmico e gli spiriti individuali « esistano », allo stesso modo del miele e dei succhi dei fiori dai quali esso viene estratto o dell'oceano e dei fiumi che in esso si riversano.
Un discorso parallelo vale per quell'alter ego dello spirito che è l'anima. In greco, infatti, ànemos indicava il vento o l'aria e questo significato si è mantenuto nella parola anemòmetro, «misuratore del vento», così come nell'espressione « anima di uno pneumatico » per la camera d'aria di una gomma. Agli inizi, in latino animus era sinonimo di spiritus e indicava la ventilazione polmonare: anche questo significato si è conservato in "animale", inteso come essere "animato", cioè che respira. Ma poi, come al solito, la metafìsica prese il sopravvento e dall'aria fresca si passò all'aria fritta...
Sembrerebbe impossibile, eppure intere religioni e filosofie si sono dedicate per millenni allo studio dello « spirito» e dell'«anima», dimenticando che esse erano ormai soltanto parole senza significato, metafore vuote di cui ci si era scordati la valenza metaforica in un processo di intossicazione e assuefazione che è così comune da avere persino un nome: «Reificazione» o «ipostatizzazione», ovvero « scambiare un concetto astratto per un oggetto concreto », dimenticando il detto di Feuerbach che « gli oggetti sono dati, ma i concetti sono posti ».
Si potrebbe credere che, tutto sommato, non sia poi così difficile separare gli usi cattivi del linguaggio da quelli buoni: sostanzialmente, decidendo che le parole di natura fisica sono sensate, mentre quelle di natura metafisica non lo sono. Ma più che la soluzione, questo è il vero problema: come stabilire, cioè, dove sta la metafisica nei nostri discorsi? Certo, si può star sicuri che lo «spirito» e l'«anima» non siano altro, come dicevano gli scolastici in un diverso contesto, che un flatus vocis, cioè un soffio di voce, parole da sussurrare e nulla più. Ma che dire del loro opposto e cioè il « corpo »? Come potrebbe il corpo non essere qualcosa di oggettivo, se è appunto ciò che ci collega con il mondo esterno e attraverso il quale noi sperimentiamo la realtà? Eppure, sorprendentemente, i filologi hanno scoperto che nell'Iliade non c'è una parola che lo indichi. O meglio, c'è già la parola soma, che a partire dal quinto secolo prima dell'era volgare (p.e.v.) indicherà il corpo, ma essa viene usata soltanto per indicare il cadavere. Così come, d'altronde, in sanscrito la parola "corpo" si diceva murth (come in trimurtì, « tre corpi » o « trinità ») e ancora oggi in inglese "cadavere" si dice corpse.
Inoltre, non c'è in Omero neppure una parola che indichi la mente. O meglio, c'è già la parola psyché, che a partire dal quinto secolo p.e.v. la indicherà, ma anch'essa viene usata in modo singolare: soltanto, cioè, per indicare la vita e il soffio vitale. Un uso che è ancora presente nel Vangelo secondo Giovanni, quando Gesù dice: « Io sono il Buon Pastore e il Buon Pastore da la sua psyché per le sue pecore », intendendo ovviamente per psyché la vita, come infatti traducono i traduttori canonici.
Quale fosse il modo in cui i Greci omerici vedevano il corpo è testimoniato dalla loro pittura arcaica: ad esempio, dalle raffigurazioni sui vasi, nelle quali esso veniva dipinto a pezzi separati e staccati fra loro, che confluivano in giunture puntiformi. Dal canto suo, l'Iliade usa una varietà di parole per indicare, da un lato, le membra del corpo, dall'altro le volizioni della mente, ma solo singolarmente e in maniera disintegrata. Le emozioni erano rappresentate in modo metaforico, attraverso gli organi sui quali esse agivano: il cuore che palpita, il sangue che ribolle, le viscere che si torcono, i polmoni che soffocano, la vista che si annebbia, ecc.
Ancora una volta, soltanto verso il quinto secolo p.e.v. si arrivò a un concetto di coscienza che, come indica il termine latino conscientia, o « scienza congiunta », permette l'integrazione del percepire e del conoscere: cioè la comprensione, nel senso letterale di « prendere insieme ». Ai tempi di Omero, invece, le volizioni venivano sentite come voci interiori e antropomorfizzate come divinità.
La stessa cosa succedeva per gli Ebrei e l'Antico Testamento ci permette di seguire da vicino l'evoluzione di questo rapporto primordiale con la propria « voce interiore ». Agli inizi, infatti, Dio si mostra apertamente, da Adamo ad Abramo. Poi, comincia a nascondersi dietro i fenomeni naturali, dalle nubi ai roveti ardenti, lasciandosi intravedere per l'ultima volta da Mosè. Poi, parla ancora per qualche tempo a sporadici profeti, sempre più flebilmente, fino a che la sua voce tace per sempre.
La tradizione greca mostra uno sviluppo analogo e Omero si situa, appunto, in un periodo in cui vedere o intravedere gli dèi e sentire le loro voci doveva essere la norma, prima che la cosa divenisse monopolio degli oracoli e delle sibille, che sono l'analogo greco dei profeti. La vena, infine, si esaurì e, in questo caso, si sa anche quando: nel 363 e.v., anno in cui l'oracolo di Apollo a Delfi profetizzò un'ultima volta, annunciando appunto che non avrebbe mai più profetizzato.
Oggi, solo gli schizofrenici e gli artisti possono sostenere di sentire le voci: fisicamente i primi e metaforicamente i secondi. Anche se, una volta, le cose erano fra loro confuse: basterà ricordare, a questo proposito, che l'Iliade e l'Odissea si aprono con due versi, «Cantami, o Diva » e « Parlami, o Musa», che rivelano come il poeta si sentisse uno scriba della divinità. E, ancor oggi, in russo, quando un matematico annuncia di aver ottenuto un risultato o dimostrato un teorema, usa il verbo polucat, «ricevere».
Ma una gran quantità di persone continua a credere a dèi, spiriti, anime e compagnia bella e a ritenere di essere guidata dalla «voce della coscienza» o, più laicamente, da quello che il filosofo Gilbert Ryle ha battezzato ironicamente il «fantasma nella macchina». La logica, dunque, dovrebbe servire almeno a questo: a fare piazza, pulita delle illusioni metafisiche, smascherandole per quello che sono, cioè parole impure, da cui purificarsi mediante un'igiene linguistica.
Questo compito decostruzionista la logica lo svolge soprattutto nel campo delle nozioni filosofiche, a partire dalla verità e dall'infinito, da cui anche noi partiremo a raccontare la nostra storia: per questo essa ha sempre costituito una parte essenziale della filosofia, da Platone e Aristotele fino a Kant e Wittgenstein. Ma non ci sarebbe logica, se il linguaggio non si fosse trovato, a un certo momento, in una situazione di « crisi » esistenziale, determinata dalla scoperta di un pensiero negativo da affiancare a quello positivo. Fino a quando le parole si limitano a descrivere percezioni sensoriali, quali forme, colori, suoni, gusti e odori, non c'è bisogno d'altro che di espressioni positive per descriverle: anche se, naturalmente, ciascuna di queste qualità esclude tutte le altre dello stesso tipo. Ma nessuno direbbe, anche limitandosi all'approssimazione dei sette colori, che un oggetto non è arancio, giallo, verde, blu, indaco e viola, per dire che è rosso. Per non parlare poi dei casi, come la forma, in cui le possibilità sono infinite. Quando, però, si passa in campi più impalpabili, quali l'etica, diventa più difficile parlare in termini positivi: anzi, sembrerebbe addirittura che l'unico modo per dire «fai il bene» sia «non fare il male». Così è nei comandamenti del Libro dei morti egiziano, poi mutuati dall'Esodo ebraico: non rubare, non ammazzare, non dire falsa testimonianza, non desiderare la roba né la donna d'altri e così via. Così è pure nell'Iliade, dove gli dèi intervengono quasi sempre a moderare, frenare e impedire, più che ad aizzare, incitare e permettere. Lo stesso Socrate, che dell'etica dovrebbe essere il primo esperto laico, è costretto ad affermare: «L'unica cosa che so è di non sapere ». E quando nell'Apologia platonica egli confessa senza imbarazzi di sentire, fin da bambino, una voce che gli parla, aggiunge esplicitamente: «Essa mi dissuade dal fare ciò che sto per fare, ma non mi incita mai a fare ciò che non sto per fare ».
I Greci antichi, come abbiamo visto, erano molto similiagli schizofrenici moderni, ma potevano forse mantenere due linguaggi separati: uno positivo per le percezioni sensoriali e uno negativo per i precetti morali. Poi, con lo sviluppo del pensiero e della logica e il superamento della schizofrenia congenita del pensiero primordiale, i due linguaggi si mescolarono fra loro. Per qualche tempo, i sofisti non capirono, o finsero di non capire, che le affermazioni e le negazioni erano fra loro differenti e le confusero allegramente, con grande dispetto di Platone. La stessa situazione si ripropose in Cina, con i taoisti. In questo caso, il Chuang-Tzu testimonia direttamente del fatto che essi ritenevano la separazione tra affermazioni e negazioni un errore filosofico. In un capitolo significativamente intitolato « L'uguaglianza di tutte le cose » sta, infatti, scritto: "Come ha potuto il Tao oscurarsi al punto che vi debba essere una distinzione fra il vero e il falso? Come ha potuto la parola offuscarsi al punto che vi debba essere distinzione tra l'affermazione e la negazione?".
Fino a quando si ragiona in questo modo si rimane nell'ambito di un pensiero olistico o monistico, che è l'esatto contrario di quello logico o dualistico. È soltanto nel momento in cui si separa ciò che Dio ha unito, quando cioè il pensiero divide diabolicamente l'affermazione dalla negazione e il vero dal falso, che nasce la logica. Ed è questa la « crisi » a cui alludevamo, il momento di «giudizio, scelta, decisione, separazione » che costituisce il significato letterale della parola greca krisis. E proprio Krisis si intitolava il perduto dramma satirico di Sofocle, nel quale si raccontava il primo e più famoso giudizio: quello di Paride, che dovette eleggere la Miss Mondo dell'antichità nel primo concorso di bellezza della storia, assegnandole il pomo d'oro messo in palio da Eris (Discordia). Le concorrenti erano Era, Afrodite e Atena, cioè le metafore del potere, dell'amore e della saggezza: formosa e con occhi bovini la prima, raffinata e vanitosa la seconda, atletica e unta d'olio l'ultima. Paride scelse Afrodite, ricevendone in premio Elena e facendo scoccare la scintilla che detonò la guerra di Troia, ma solo dopo che le concorrenti cercarono di convincerlo mediante argomenti a loro favore: cioè, esattamente con il metodo che divenne tipico della logica.
A proposito di "metodo", il termine indica una "via" (hodós) che porta oltre (metà) » e che si può perseguire. Il simbolismo della via aperta, da seguire per raggiungere una meta, si contrappone a quello dell'aporia, la « mancanza di passaggio» o «strada interrotta», che è poi passata a indicare metaforicamente ogni intoppo che si incontra sul cammino del ragionamento. Naturalmente, spesso un passaggio e una soluzione si trovano anche dove a prima vista sembra che non ci siano e, per questo, il termine « aporia » in seguito è passato a indicare semplicemente un problema, non necessariamente insolubile o senza via d'uscita.
Una situazione intermedia fra la via spianata e quella occlusa è ciò che noi chiamiamo «bivio» o «biforcazione», che in greco si diceva più propriamente triodos, « trivio », e veniva indicato dai pitagorici con la lettera Y; guardando soltanto avanti si rischia, infatti, di dimenticare il cammino già fatto e di scordare in che modo si è giunti alla scelta fra due (o più) alternative. In ogni caso, lo scopo del pensiero è, appunto, quello di indicare in quale direzione si debba proseguire, cercando di imboccare la via aperta e di evitare quella chiusa. La biforcazione è tipica del pensiero dualistico e la sua prima rappresentazione letteraria esplicita è una variazione sul dramma di Sofocle inventata dal sofista Prodico, riferita da Senofonte nei Memorabili e rappresentata in infinite varianti letterarie e pittoriche. Questa volta è Èrcole a trovarsi in aporia, a essere in dubbio su quale cammino seguire nella vita e, ancora una volta, la scelta si presenta sotto forma di due donne, che simboleggiano rispettivamente la virtù e la felicità, e che si contendono i suoi favori con un lungo discorso ciascuna.
Ma tutta la mitologia e la religione (ammesso che si tratti di generi diversi...) traboccano di simili storie, più o meno edificanti, che variamente propongono scelte letterali fra la destra e la sinistra o metaforiche fra il bene e il male, il vizio e la virtù, la luce e le tenebre, la vita e la morte, la salvezza e la dannazione, Dio e il Diavolo...
Ovviamente a noi, invece, interessano di più, in questo contesto, le scelte logiche fra il vero e il falso. È questo il percorso che ci si para dinanzi e che ci apprestiamo a seguire, a partire appunto dal momento storico in cui il linguaggio entra in crisi con l'introduzione del pensiero astratto, da un lato, e dualistico, dall'altro.

 
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cuorimeccanici
view post Posted on 27/10/2008, 09:26




SECONDA LEZIONE: LA LOGICA DA EPIMENIDE AD EUBULIDE.
L'idea che, come nell'etica è bene ciò che non è male, e non viceversa, così anche nella logica sia vero ciò che non è falso, e non viceversa, è oggi diventata popolare grazie alla « filosofia » di Karl Popper, che ha notato come la scienza non sia mai in grado di verificare le proprie teorie, mentre possa a volte falsificarle. Infatti, le conseguenze che si possono trarre da una qualunque teoria sono infinite, ma noi non siamo condannati a vivere in eterno: né come individui, né come specie. Se anche ne avessimo la possibilità teorica, non avremmo, dunque, il tempo pratico di verificare le infinite conseguenze di una teoria e di convincerci che essa è vera. Abbiamo, però, la possibilità di confutare una conseguenza isolata e, quindi, convincerci che una teoria è falsa.
Naturalmente, la cosa è fattibile soltanto per le teorie che Popper chiama scientifiche: quelle, cioè, che fanno previsioni che si possono confutare. Le altre, quelle che sono inconfutabili anche in linea di principio, appartengono al mare magnum della superstizione umana. In altre parole, la scienza di oggi si comporta come i tribunali di ieri (quelli, cioè, precedenti l'era di Bush...) in cui un imputato veniva considerato innocente fino a prova contraria e non viceversa. Il che significa, o significava, che mentre è possibile provare la colpevolezza di qualcuno, non si può mai essere certi della sua innocenza. Allo stesso modo, in medicina è possibile provare l'infermità di qualcuno, ma non si può mai essere certi della sua salute: infatti, molti si scoprono malati o addirittura muoiono, subito dopo che un check-up ha decretato la loro forma perfetta...
Ciò detto, dobbiamo ora rivolgere più direttamente la nostra attenzione alla verità e falsità. Le quali, come spesso succede ai concetti astratti, agli inizi erano rappresentate concretamente come dèi antropomorfizzati. In Egitto, ad esempio, «verità» si diceva Ma'at ed era il nome di una divinità singolare: sposa di Toth, al quale Platone attribuisce nel Fedro l'invenzione della scrittura, e madre del grande Amon venerato a Tebe, essa era più un concetto che una persona e costituiva una versione di ciò che i Greci avrebbero chiamato lògos e i cristiani verbum.
Ma'at era raffigurata come una ragazza con una piuma di struzzo sul capo e, oltre a rappresentare l'ordine cosmico, presiedeva al giudizio dei morti. Questo avveniva nella camera della doppia verità, cioè la verità unita alla giustizia, che da lei prendeva il nome di Ma'aty. Su un piatto di una bilancia veniva posto il cuore del defunto e sull'altro piatto la piuma di Ma'at: secondo che il cuore fosse o non fosse più pesante della piuma, il defunto veniva condannato al regno delle tenebre o assolto e promosso al regno della luce. Il giudizio era presieduto da Osiride e il collegio giudicante consisteva di 42 magistrati divini, in rappresentanza delle 42 province egiziane, ognuno dei quali interrogava il defunto riguardo a uno dei 42 capi d'accusa elencati nel capitolo cxxv del Libro dei morti: essi non erano altro che la prima versione dei comandamenti biblici, che duemila anni dopo la loro formulazione originaria furono imposti da Mosè agli Ebrei. Di fronte a ciascuno dei 42 dèi (una delle poche raffigurazioni complete dei quali si trova nel papiro di Torino) il defunto ripeteva la formula della confessione negativa: «Non ho fatto questo». Il cuore veniva poi pesato da Anubis, il verdetto annunciato da Toth e l'accusato accompagnato da Horus di fronte a Osiride, che in caso di assoluzione lo dichiarava ma'a kheru, « veritiero ».

Quanto ai Greci, essi avevano non soltanto un Dio della verità, ma anche uno della falsità, vale a dire, rispettivamente, Apollo e Hermes. I due erano fratellastri, in quanto figli di Zeus, ed erano stati partoriti in maniere contrapposte: uno da Latona su un prato di giorno a Delo, l'altro da Maia in una caverna di notte in Arcadia. La gelosia di Hera, moglie legittima del padre degli dèi, aveva impedito all'amante del marito di partorire Apollo sulla terraferma: Latona si era, dunque, rifugiata sull'isola fluttuante di Delo, vagante per i mari, che da quel momento fu miracolosamente ancorata nell'Egeo da quattro colonne dorate, incoronata dalle Cicladi. Essa divenne sede di uno dei santuari di Apollo e il suo suolo non poteva essere profanato né dalla nascita, né dalla morte di esseri umani. Il più importante santuario di Apollo, però, era quello di Delfi, costruito dove il Dio aveva ucciso il serpente Pitone. Sulle sue pareti erano riportate le sentenze dei sette saggi, tra le quali le celeberrime «conosci te stesso» e «niente di troppo ». Al suo interno si trovava una pietra conica o sferica, a seconda delle versioni, chiamata omphalós, che si credeva fosse l'ombelico del mondo, e in una stanza sotterranea, sopra una fenditura della roccia dalla quale esalava forse un gas allucinogeno, stava il tripode dal quale profetava la Pizia, il più famoso oracolo di Apollo, con sentenze che sfidavano le leggi della logica. La cosa non sorprende, perché la verità e la falsità simboleggiate da Febo e Hermes erano passibili di conciliazione o di commistione, perlomeno ai tempi di Omero. Non è, infatti, un caso che nell'Iliade i loro ruoli siano invertiti: il poema si apre con l'ira di Apollo e la peste da lui provocata nel campo dei Greci e si chiude con Hermes che scorta Piiamo alla tenda di Achille per i colloqui di pace fra i Greci e i Troiani. Evidentemente, la contrapposizione fra verità e falsità, sulla quale si basa la logica, è posteriore al poema. Già in tempi omerici, invece, la verità era collegata alla luce. Nell'Inno ad Apollo dell'ottavo secolo p.e.V., ad esempio, si dice che Delo risplendette di azzurro nel momento della sua nascita e le dee che vi assistevano furono abbagliate da un turbinio multicolore. Febo fu, dunque, dapprima associato al Sole, con l'epiteto di Febo, «Radioso», e in seguito le sue qualità continuarono a crescere vertiginosamente, fino a che egli divenne una sorta di « superdio » dell'ecumenismo panellenico. D'altronde, lo stesso nome Apollon significa letteralmente «non molti», cioè «uno».

Non stupisce, dunque, che Dante lo invochi nel primo canto del Paradiso, chiamandolo «buon Apollo» e «divina virtù», né che egli finisse col venir associato a Cristo, che per sua stessa ammissione si considerava « la Verità » e affibbiava, invece, al Diavolo la patente di «padre della menzogna ». La contrapposizione fra vero e falso si ritrova, dunque, personificata anche nel Cristianesimo, nel quale Gesù e il Diavolo costituiscono gli analoghi non solo di Apollo e Hermes, ma anche della luce e delle tenebre. Addirittura, il 25 dicembre, che nella mitologia cristiana commemora dal 353 e.V. il Natale del Signore, altro non è che la festa del Sol Invictus siriano, fissata dall'imperatore Aureliano nel 274 e.V., dopo che la divinità era stata introdotta a Roma dall'imperatore Eliogabalo una cinquantina d'anni prima. La ricorrenza commemora il momento in cui il Sole «risorge» e ricomincia la sua «ascensione» nel cielo, tre giorni dopo la sua « morte » al solstizio d'inverno del 22 dicembre (chi ha orecchi per intendere, intenda...). Per tornare a Cristo, l'episodio più noto in cui egli ripetè la sua affermazione di essere «la Verità» è certamente il processo di fronte a Pilato. Ma il governatore romano non si lasciò impressionare e ribattè: «Che cos'è la verità?», dopo di che, se ne andò senza aspettare risposta. E fece bene, per almeno due motivi. Anzitutto, perché neppure Gesù poteva definire la verità: come vedremo tra breve, infatti, essa è soltanto una delle tante illusioni metafisiche che la logica è riuscita a decostruire. Inoltre, anche se ci fosse stata una definizione, Pilato non avrebbe potuto capirla: per i Romani, infatti, la veritas era un concetto giuridico e non logico. Letteralmente, vero era ciò che si poteva verificare, « rendere vero », con un verdictum, una « dichiarazione di verità », e dunque qualcosa da accettare sulla parola dei giudici, con un atto di fede. Le sentenze, infatti, non stabiliscono la verità esterna dei fatti, ma solo la coerenza interna di un impianto accusatorio o difensivo. È proprio su questa nozione giuridica che si è creato l'equivoco, ancor oggi tramandato, che si possa parlare di «verità di fede» da affiancare alle verità di ragione: un equivoco tramandato da parole come "vera", che in italiano significa fede matrimoniale e in russo fede religiosa, o truth, che deriva dall'anglosassone treowthu, «fede».

Per evitare l'equivoco, sarebbe bene, invece, parlare più semplicemente di pregiudizi e contrapporti alla verità nel senso greco: la quale è l'opposto del falsum latino, cioè dell'inganno. Il termine greco originale era infatti alétheia: un concetto che si potrebbe tradurre con « non latenza » o « non latitanza », e la cui natura negativa si manifesta ancora ai nostri giorni nel fatto che nelle lingue europee, in genere, esiste un verbo per «mentire», ma non uno per «dire la verità». I termini «latenza» e «latitanza», così come «letargo», derivano dal latino latere, «rimanere nascosto», il quale a sua volta deriva dal greco léthe, «dimenticanza» o « oblio »: la verità è, dunque, « palese » e «indimenticabile » o, almeno, « indimenticata ». Lethe (Oblivio) era personificata come dea dell'oblio, figlia di Eris (Discordia) e naturalizzata nel fiume nel quale le anime morte si immergevano per dimenticare la vita passata e prepararsi alla reincarnazione. O, nell'Inferno di Dante, la sua versione riveduta e corretta, «là dove vanno l'anime a lavarsi / quando la colpa pentuta è rimossa ». Naturalmente, come ci si può aspettare, Lethe aveva un contrario: Mnemosine (Memoria, poi diventata Giunone Moneta, o « Ammonente »), madre delle Muse, dea e fiume del ricordo (che ha dato il nome alle monete perché nel suo tempio stava la zecca). Oltre a Lethe, i Greci avevano anche un'altra dea dell'oblio: la ninfa Calipso, dal capo velato, il cui nome significava, appunto, «Velata», «Coperta», «Nascosta». Nell'Odissea ella tiene Odisseo prigioniero per sette anni sull'isola di Ogigia, dandogli tre figli e cercando inutilmente di fargli dimenticare Penelope. Lethe sta ad alétheia come Calipso sta ad apokàlypsis: «rivelazione», «disvelamento», «scoperta» (il significato odierno di «apocalissi» come «catastrofe» deriva dalle truculente visioni descritte da san Giovanni nell'omonimo libro che conclude il Nuovo Testamento: un passaggio dalla « rivelazione » alla « rivoluzione », che è la traduzione di katastrophé). Letteralmente, dunque, apokàlypsis si scopre, si svela o si rivela, mentre alétheia si palesa, affiora o emerge e la veritas si stabilisce, si determina o si verifica.

Scendendo dall'Olimpo in terra, i Romani consideravano i Greci dei bugiardi patentati. Come disse Cicerone in In difesa di Lucio Valerio Fiacco (IV, 9): "Concedo loro le lettere, ammetto la loro conoscenza di molte arti, non nego la loro grazia nel parlare, l'acume di ingegno, l'abbondanza di parole. Ma il rispetto per le testimonianze e la verità, questa nazione non li ha mai coltivati". Dal canto loro, i Greci riconoscevano come campioni nazionali di menzogna i Cretesi e arrivarono a coniare il sostantivo kretismós, « cretismo », come sinonimo di falsità (a scanso di equivoci, la parola «cretino » non deriva invece dai Cretesi, ma dai Cristiani: crétin indicava, nel Settecento, un cristiano delle regioni alpine della Savoia, nelle quali era diffusa la disfunzione tiroidea che oggi si chiama appunto cretinismo). D'altronde, per mentire bisogna essere tutt'altro che cretini: semmai, è a dire la verità che si rischia di fare la figura degli ingenui o degli ottusi; infatti, Odisseo, l'eroe che nell'Iliade e nell'Odissea viene presentato come il mentitore per eccellenza, è ammirato e lodato dalla stessa Alena, dea della saggezza. Non da Achille, però, che nel primo poema (IX, 395-403) lo chiama « divino senno », ma non gli manda a dire che « odia quanto le porte dell'Inferno chi pensa una cosa e ne dice un'altra ». Commentando questo episodio nell'Ippia Minore, il suo dialogo sulla falsità, Platone farà osservare a Socrate che è più sapiente chi mente sapendo di mentire, di chi dice la verità perché non sa farne a meno.
Poiché Ulisse ama giocare pericolosamente, in più occasioni si spaccia nell'Odissea per un cretese: lo dice nel XIII libro ad Atena, che gli si presenta nelle vesti di un pastorello; lo ripete nel XIV al vecchio servo Eumeo, questa volta travestendosi lui da mendicante; e lo reitera nel XIX a Penelope, pretendendo addirittura di essere il nipote del re Minosse. La pericolosità del gioco di Ulisse sta nel fatto che, se è vero che i Cretesi sono bugiardi, affermare di essere un cretese significa ammettere di mentire. Dunque, tutto ciò che si dice dovrebbe essere messo in dubbio, in particolare il fatto di essere un cretese. Infatti, Ulisse non lo è e dice la verità mentendo. Che succederebbe, però, se invece di Ulisse, a dire di essere un cretese fosse davvero un cretese? Qui il gioco finirebbe, perché questa è semplicemente una verità. In altre parole, non è vero che tutti i Cretesi mentono sempre, nonostante ciò che pensava Cicerone: ovvero, nessuno è perfetto. Verso il VI sec. p.e.V. ci fu, però, un cretese, di nome Epimenide, che passò alla storia per aver affermato: « I Cretesi sono bugiardi ». Il che, presumibilmente, andava appunto interpretato come: « Tutti i Cretesi mentono sempre ». Poiché Epimenide era davvero cretese, la sua affermazione non poteva essere vera. E allora doveva essere falsa, cioè doveva esserci un cretese che a volte diceva il vero (probabilmente, la pecora bianca della comunità). Niente assicura, però, che quel cretese fosse proprio Epimenide. E se anche lo fosse stato, niente assicura che la verità, che almeno una volta doveva scappargli, fosse proprio quella da lui pronunciata in quell'occasione. In altre parole, nonostante il clamore che la cosa suscitò, non c'era nessun problema: semplicemente, la frase pronunciata da Epimenide era falsa, come d'altronde lui stesso aveva implicitamente preannunciato. Probabilmente, il clamore derivava dall'aura che lo circondava. Epimenide aveva, infatti, dormito un lungo sonno di 57 anni nella grotta del Dio cretese dei misteri e si era sottoposto a digiuni interminabili, nutrendosi soltanto di una pozione vegetale suggeritagli dalle Ninfe e conservata in uno zoccolo di bue. Quando morì, si scoprì che era tutto tatuato, secondo la moda degli sciamani, e si capì da dove aveva derivato il potere di purificare Atene da una pericolosa contaminazione.
Ma, nonostante l'impressionante pedigree del suo presunto inventore, la prima testimonianza sul detto di Epimenide è del III sec. p.e.V., nell'Inno a Zeus di Callimaco, nel quale il poeta si pone il problema di decidere dove sia effettivamente nato il padre degli dèi: se a Creta, sul monte Ida, o in Arcadia, sul Liceo. Poiché la maggioranza propendeva per la prima località, Callimaco opta per la seconda, sostenendo argutamente che, proprio perché i Cretesi sono bugiardi, mentono quando sostengono che Zeus sia nato a Creta e si tradiscono in maniera plateale quando mostrano ai turisti la sua tomba, dimenticando che gli dèi sono immortali.
Ma smettiamola di tormentare i poveri Cretesi i quali, fra l'altro, erano solitamente discordi fra loro e non potevano, dunque, sostenere tutti di essere bugiardi. Sembra, infatti, che essi trovassero un accordo soltanto di fronte a un nemico comune, nel qual caso costituivano quello che ancor oggi si chiama un sincretismo, una «confederazione cretese» (anche se, a partire da Erasmo da Rotterdam, il termine è passato a denotare la confluenza di più dottrine filosofiche o religiose diverse, in senso figurato).
Eliminare il riferimento ai Cretesi dalla storia precedente non è difficile, perché basta che qualcuno affermi direttamente: «Io mento sempre». Ma le cose rimangono come prima: poiché la frase non può essere vera, dev'essere falsa. Dunque, chi parla deve a volte dire il vero, ma non è detto che lo stia dicendo in quel momento. Fu il megarico Eubulide a scoprire, nel IV sec. p.e.V., che invece le cose cambiano completamente se qualcuno afferma: « In questo momento, sto mentendo ». Perché allora non solo, come al solito, la frase non può essere vera, perché altrimenti sarebbe falsa. Ma non può nemmeno essere falsa, perché altrimenti sarebbe vero il suo contrario e, dunque, sarebbe vera.
E questo non è più soltanto un rompicapo, ma una vera e propria contraddizione: una frase, cioè, «detta contro (se stessa)», nel senso che è vera, se è falsa e falsa, se è vera. O, se si preferisce, un paradosso: cioè un'affermazione che va « oltre l'opinione comune » e, dunque, risulta sorprendente o inattesa. O, ancora, un'antinomia qualcosa, cioè, che va « oltre le regole », in questo caso del pensiero.
La frase « sto mentendo » detta, appunto, paradosso o antinomia del mentitore, è il granello di sabbia che inceppa il meccanismo del linguaggio: bastano due parole a mettere in crisi le sue pretese metafisiche e a dimostrare che le nozioni di verità e falsità sono contraddittorie. O meglio, che molte sono le verità e le falsità (con la minuscola), ma non c'è nessuna Verità o Falsità. Il che era, forse, ciò che Gesù intendeva suggerire affermando, da un lato, di essere la Verità e, dall'altro, che il suo regno non era di questo mondo.
Naturalmente, non c'è niente di sorprendente nel fatto che la metafisica risulti essere un'illusione: l'avevamo già capito dando uno sguardo alla storia delle parole astratte, come « spirito » e « anima » e scoprendo che troppo spesso esse sono scatole vuote che non contengono niente. Semmai, la cosa sorprendente è che a volte basti così poco per smontare le pretese della metafisica, che si rivela essere semplicemente una malattia infantile e infettiva del pensiero e del linguaggio. E poiché uno dei sintomi dell'infantilismo è la testardaggine, i metafisici si sono incaponiti per millenni nel tentativo di trovare «soluzioni » al paradosso del mentitore, così come agli altri argomenti antimetafisici che discuteremo nel seguito. L'unico risultato è stato, però, un continuo raffinamento della decostruzione, che ha esposto in maniera ancora più evidente e precisa le difficoltà del linguaggio.
Ad esempio, nel XIV secolo Giovanni da Buridano (quello dell'asino, morto di fame perché indeciso fra due equidistanti balle di fieno) ha mostrato che il problema del mentitore non sta nell'autoreferenza, cioè nel fatto che egli si riferisce a se stesso. Il paradosso si ripropone, infatti, allo stesso modo nel dialogo seguente, in cui nessuno dei due interlocutori fa riferimento a se stesso e ciascuno si riferisce, invece, all'altro: Socrate: « Platone mentirà nella frase seguente ». Platone: « Socrate ha detto il vero nella frase precedente ». Perché, se Socrate ha detto il vero, allora Platone ha mentito e, dunque, Socrate non ha detto il vero. E, se Socrate ha mentito, allora Platone ha detto il vero e così ha fatto Socrate. Idem per Platone. Volendo, le cose si possono rendere ancora più semplici, considerando la riscrittura dell'esempio di Buridano proposta da Philip Jourdain nel 1913: "La frase seguente è falsa". "La frase precedente è vera".
Alcuni scolastici immaginarono che ci fosse, invece, una confusione tra pezzi di frase che vengono usati nel discorso, per quello che dicono, e pezzi di frase che vengono soltanto menzionati, per quello che appaiono. Nel secondo caso, i pezzi dovrebbero essere scritti fra virgolette, come in:
«Un monosillabo» consiste di sei sillabe, che è vero come sta scritto, perché l'espressione «un-mo-no-sil-la-bo» consiste effettivamente di sei sillabe, ma sarebbe falso se non ci fossero le virgolette, perché un monosillabo consiste, ovviamente, di una sola sillaba. Questa volta il problema sembra più grave, ma Willard Quine ha trovato, nel 1962, una versione del paradosso del mentitore che tiene conto della distinzione fra uso e menzione. Semplicemente: « E' falsa se preceduta dalla sua menzione » è falsa se preceduta dalla sua menzione. Il soggetto della frase è la parte fra virgolette, che è anche la menzione della parte senza virgolette e la precede. Dunque, l'intera frase dice di se stessa di essere falsa ed è, come al solito, contraddittoria.
Insomma, sembra proprio che non ci siano vie d'uscita: comunque la si metta, la metafisica della verità e della falsità non si può salvare interamente. Parzialmente sì, almenoentro certi limiti, come vedremo nel seguito: ad esempio, confinando il linguaggio naturale entro un recinto formale, oppure imbrigliandolo per impedirgli di lanciarsi troppo facilmente al galoppo, come lo spronano invece a fare i paradossi. Bisogna, però, riconoscere che l'argomento di Eubulide è una bella storia, tra l'altro coi rari vantaggi dell'acutezza e della concisione. Non stupisce, dunque, che essa sia stata variamente utilizzata a fini letterari, oltre che filosofici e logici.
CONTINUA
 
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Sissi 25
view post Posted on 27/10/2008, 21:12




"... come abbiamo mostrato in dettaglio in C'era una volta un paradosso (Einaudi 2001)".

prof. ma le piace proprio tanto "Le menzogne di Ulisse"! :D
 
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cuorimeccanici
view post Posted on 27/10/2008, 21:27




In realtà, cara studentessa, mi piace anche "Il matematico impertinente" (2005), "Incontri con menti straordinarie" (2006), Perchè non possiamo essere cristiani e men che mai cattolici (2007), "Il matematico impenitente" (2008), nonchè la collana di divulgazione scientifica "La lente di Galileo".
Visto che il titolo della discussione é: "Approfondimenti di scienze per completare gli appunti", era ovvio che riportavo le parole di Odifreddi, dato che di logica ne ha parlato Odifreddi sul cd.
Ma tu hai almeno completato i tuoi appunti? Guarda che questa settimana farò la verifica che non ho potuto fare la scorsa settimana. :)
 
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cuorimeccanici
view post Posted on 27/10/2008, 23:28




TERZA LEZIONE: LA LOGICA DA PARMENIDE A ZENONE (prima parte).
Quando, verso la metà del VI sec. p.e.V., i Persiani al comando del re Ciro conquistarono la costa dell'Asia Minore, gli abitanti della città ionica di Focea fuggirono e si rifugiarono in Corsica. In breve tempo essi arrivarono a insidiare i traffici commerciali fra Etruschi e Cartaginesi e provocarono tensioni che sfociarono nella battaglia di Alia. Benché temporaneamente vittoriosi, i Focesi compresero che non avrebbero potuto resistere a un secondo attacco ed emigrarono ancora, questa volta in Campania, fondando vicino all'odierna Napoli la città di Elea. Ed è in questa colonia ionica, presto divenuta un importante centro commerciale e culturale, che verso il 500 p.e.V., su un carro dalle ruote cigolanti e tirato da cavalle, un uomo lascia la Casa della Notte, percorre i Sentieri del Giorno che vengono a poco a poco illuminati da una moltitudine di Eliadi (Figlie del Sole) e giunge alla dimora di Mnemosine (Memoria), la cui porta di pietra gli viene aperta da Dike (Giustizia). La dea del ricordo mostra all'uomo il trìodos, la biforcazione delle strade che si possono seguire nella ricerca: da un lato la via dell'alétheia, la « verità », che si raggiunge attraverso il pensiero, e dall'altro quella della dóxa, l'« opinione", che si ottiene attraverso i sensi.
Quest'uomo è Parmenide e questo è l'inizio del suo poema Sulla natura, di cui sono stati ricostruiti soltanto 154 versi, ma che ciononostante, o propno per questo, costituì uno dei più importanti e più discussi riferimenti della filosofia occidentale, da Platone a Heidegger. Parmenide parte dall'osservazione che "è vero ciò che è e falso ciò che non è" e la riformula dicendo che «l'essere è, il non essere non è ». In altre parole, collega verità e falsità, che come abbiamo visto sono già problematiche di per sé, con l'essere e il non essere, che lo sono ancora di più. E lo erano in particolare ai suoi tempi, per una serie di motivi. Anzitutto, perché il verbo essere è una peculiarità delle lingue indoeuropee, ancor oggi carica di molteplici significati: in «così è» asserisce la veridicità di un'affermazione, in «Parmenide è» ha valenza esistenziale, in «Parmenide è eleatico» funge da copula di un giudizio, in «Parmenide è un eleatico» stabilisce l'appartenenza di un individuo a una specie o un genere, in «l'eleatico è un filosofo» denota l'inclusione di una specie in un genere e in «Parmenide è l'autore di Sulla natura» indica un'identità. Questa ambiguità è naturalmente foriera di gran tempeste filosofìche, perché rischia di rendere possibile, per non dire inevitabile, la confusione degli usi e dei significati. E infatti così è nel linguaggio naturale, di ieri e di oggi: al punto che nei linguaggi formali artificiali si è deciso di dipanare l'aggrovigliata matassa, denotando con simboli diversi le varie accezioni del verbo, per evitare i problemi nei quali sono andati a ingarbugliarsi Parmenide e i suoi seguaci.
Uno di questi problemi si nasconde dietro all'abitudine di sostantivare un verbo, il che si può fare aggiungendo un articolo determinativo all'infinito o al participio, attivo o passivo, dando così un nome all'azione descritta dal verbo e agli agenti ad essa relativi. Naturalmente, non ci sono problemi nel caso di verbi che descrivono sensazioni concrete, come «vedere »: in tal caso si passa a « il vedere », « il vedente » e « il veduto » e tutto fila liscio. Almeno finché ci si limita a dire « il vedente vede il veduto », o « il vedente e il veduto sono il soggetto e l'oggetto del vedere» e non si pretende di fare contorsioni quali « il vedere vede », che ovviamente non significa nulla.
Nel caso di verbi che descrivono concetti astratti, come « amare », la faccenda si complica: può infatti ancora essere chiaro cosa siano « l'amante » e « l'amato », ma lo è molto meno « l'amare ». Anzi, ci sono forti dubbi che la parola significhi qualcosa, al di là dell'atto materiale che era l'oggetto del «desiderio» e della «passione» costituenti il significato letterale del sanscrito kama e del suo derivato latino amar, così come del greco èros, nonostante tutti gli sforzi di rimozione compiuti dal platonismo al romanticismo. Ancora una volta, espressioni come «l'amare ama» condannano all'Inferno linguistico: e infatti solo la Francesca dantesca ha l'ardire o l'ardore di dire cose simili, visto che intanto all'Inferno ci sta già.
Nel caso del verbo « essere », che è intransitivo, l'unico participio possibile è «essente» o «ente»: entrambi, verbo e participio, derivano dal latino esse ed ens: un termine, quest'ultimo, introdotto nientemeno che da Giulio Cesare, in un trattatello perduto. In greco si usavano invece einai ed eón, poi diventato on (ónta al plurale) e mantenutosi in sostantivi come « ontologia » e « ontogenesi », che lette-ralmente significano «discorso sull'ente» e «sviluppo dell'ente». Ora, tutto dipende dall'accezione in cui «ente» viene usato. In quella veridica, ad esempio, esso sarebbe semplicemente «il vero» e in questo senso «l'ente è» significa semplicemente "il vero è vero". Nell'accezione esistenziale, «l'ente» diventa «l'esistente» e «l'ente è» significa semplicemente «l'esistente esiste ». In entrambi i casi si ottiene una tautologia, cioè una frase che « dice la stessa cosa». Nell'accezione copulativa arrivano invece i problemi, perché in questo caso il verbo non indica nessuna azione ed è soltanto un ausiliario che si limita, come dice il nome copula, a « congiungere » fra loro soggetto e predicato: « l'ente » rimane in questo caso un sostantivo vuoto e dire « l'ente è » non ha alcun senso.
Naturalmente, se ci si limita a dire «l'ente è», non si sa in che senso si intendano il sostantivo e il verbo. E questo è esattamente ciò che fa Parmenide e, dopo di lui, i filosofi che « si muovono a diversi porti / per lo gran mar de l'essere ». Con l'aggravante di dire metaforicamente, spesso e volentieri, non «l'ente è» ma «l'essere è»: che letteralmente ha, come abbiamo già notato, lo stesso significato di « il vedere vede» o «l'amare ama» e cioè nessuno.
Tra parentesi, il primo a ipostatizzare il verbo « essere » (einai) nel sostantivo «l'essere» (to einaì) fu il neoplatonico Porfirio, in un commento del III sec. e.V. al Parmenide di Platone. Questo pericoloso giochetto non si può, ad esempio, fare in inglese dove si può dire the being, « l'(ess)ente», ma non the (to) be, «l'essere»: non a caso, dunque, la filosofia continentale dell'essere risulta indigesta ai palati analitici degli anglosassoni.
Per tornare a Parmenide, a parte il fatto che l'aver scelto come mezzo espressivo la poesia gli dava diritto a licenze poetiche, a sua parziale scusante bisogna dire che l'uso copulativo del verbo essere era ancora mal compreso ai suoi tempi, essendo stato introdotto solo dopo l'era omerica. Nel greco antico infatti non esisteva, come non esiste tuttora in varie lingue slave moderne, che invece di « Parmenide è eleatico » dicono semplicemente « Parmenide eleatico ».
Probabilmente, il filosofo non era conscio della problematicità del verbo essere e del relativo participio. Si rese invece benissimo conto dei problemi del non essere, che derivano dalla sovrapposizione dei problemi dell'essere con quelli delle negazioni greche; a quei tempi ce n'erano due, ou e me, che tanto per complicare le cose potevano anche essere combinate fra loro in ou me e me ou. Ou si usava per i modi indicativo e ottativo del verbo, come « non sono » e « non vorrei essere »; me per i modi congiuntivo e imperativo, come «che non sia» e «non essere! »; ou me per il futuro enfatico, come «non sarai certo tu »; e me ou per gli interrogativi che implicano una risposta negativa, come « non sarà che? ». Quanto ai sostantivi, ou e me venivano rispettivamente usate per i fatti oggettivi e i pensieri soggettivi, ma l'essere di Parmenide non era né l'uno né l'altro: nel dubbio il poema usa entrambi, ouk on e me on.
Non c'è da stupirsi che in questo bel pasticcio, che proprio allora stava portando le due negazioni a confondersi, e che in seguito le fece confluire in una sola, Parmenide abbia trovato difficoltà a raccapezzarsi col non essere. O meglio, con il niente e il nulla, che derivano rispettivamente da nec entem, « non ente », e nec ullum, « non qualcuno » (dunque, letteralmente, « nessuno »). Naturalmente, il non essere non aveva atteso Parmenide, per venire in essere: già nel libro ix dell'Odissea l'aveva evocato il solito Ulisse, dopo essere rimasto intrappolato nella grotta di Polifemo con i suoi compagni. Al ciclope egli aveva detto di chiamarsi non Odisseus, «Odisseo», ma Oudeis, «Nessuno»: un bel gioco di parole, che in greco suonava quasi come un anagramma. Quando gli altri ciclopi accorrono alle urla di Polifemo e gli domandano se abbia bisogno di aiuto, egli risponde dunque che Nessuno gli sta facendo del male, generando l'equivoco che Ulisse aveva astutamente preparato. Oggi queste cose sono dette per far ridere, ma Parmenide le prendeva tremendamente sul serio. Egli formulò la fatidica domanda: «Che cos'è il nulla?» e scoprì il paradosso del non essere. Da un lato, infatti, il non essere è niente, per sua stessa definizione. Dall'altro lato, esso è però qualche cosa: cioè, appunto, il non essere.
A scanso di equivoci, il ragionamento di Parmenide, per quanto elementare, si basava implicitamente su tre ingredienti niente affatto banali, che sono poi entrati a far parte del bagaglio degli attrezzi della logica. Primo: dire che « il non essere non è l'essere» significa dare una definizione di verità della negazione (« il non essere è ») come falsità del negato («non è l'essere»). Secondo: dire «il non essere il non essere » significa affermare il principio di identità, secondo cui ogni cosa è uguale a se stessa. Terzo: dire che « il non essere non può allo stesso tempo essere e non essere » significa intravedere il principio di non contraddizione, secondo cui una cosa non può allo stesso tempo avere e non avere una stessa proprietà. Questi ingredienti si chiariranno soltanto in seguito, a partire da Platone e Aristotele, ma Parmenide li ha, in qualche modo, intuiti e di questo bisogna dargli atto.
Ciò che invece bisogna imputargli è di non aver capito che, come già nel caso della verità e della falsità, il suo paradosso smascherava l'illusione metafisica dell'essere e del non essere. O, per dirla nei termini che abbiamo appunto già usato per la verità e la falsità, il paradosso provava che, benché molti siano gli esseri e i non esseri, con la minuscola, non c'è nessun Essere o Non Essere, con la maiuscola. Ma questo lo capirà soltanto Platone nel Sofista. Parmenide, invece, credette che rigettare il Non Essere significasse dover accettare l'Essere e si lanciò in caduta libera in una serie di (s)ragionamenti che Aristotele chiamò senza mezzi termini maniai, «manie» o «follie». Oggi non varrebbe neppure la pena di parlarne, se queste cose non venissero continuamente ripetute, nei corsi di filosofia di ogni ordine e grado, come se... «niente fosse».
Le follie alle quali alludeva Aristotele si possono riassumere nel seguente schemino, in cui i concetti a numeratore e denominatore esprimono, rispettivamente, la filosofia dell'essere di Parmenide e quella del divenire di Eraclito e cioè i due estremismi fra i quali Platone e Aristotele trovarono poi una mediazione: Essere / Non Essere = Verità / Opinione = Realtà / Apparenza = Uno / Molti = Tutto / Nulla.
L'intera costruzione si fonda su un dogma, enunciato esplicitamente da Parmenide nel terzo frammento del suo poema, che proclama: «Il pensiero e l'essere sono la stessa cosa ». Ciò significa credere che la natura obbedisce a quel che la ragione stabilisce: una bella speranza, non c'è che dire, alla quale si sono in qualche maniera affidati anche molti scienziati, da Pitagora a Einstein, e sulla quale dovremo dunque tornare.
Nel caso di Parmenide, la ragione « stabiliva » che l'essere doveva essere uno: perché, se ce ne fossero stati molti, sarebbero stati separati dal nulla, che non esiste. E doveva essere tutto: perché l'unica cosa che non faceva parte del tutto era il nulla. E doveva essere eterno e immortale, immobile e immutabile: perché, se fosse cambiato nel tempo o nello spazio, sarebbe stato qualcosa di diverso da se stesso e dunque nulla. E doveva essere la vera realtà: perché l'apparenza ci mostra un mondo mutevole e molteplice, che contraddice le proprietà dell'essere.
Naturalmente, più che ragionamenti questi sembrano sofismi dello stesso genere di quelli di Ulisse ed è difficile prenderli seriamente. Al più essi sono buoni per il pensiero paralogico o prelogico della religione o della letteratura, che ne hanno effettivamente anticipati molti. Ad esempio, le religioni orientali sono concordi nel presentare una visione del mondo come apparenza di molteplicità e disunione, secondo le metafore del maya induista, del samsara buddhista e della complementarità fra yin e yang taoisti, che velano e nascondono l'unità e l'armonia della vera realtà: il brahman induista, il dharmakaya buddhista e lo stesso tao.
Le religioni mediorientali sono invece concordi nell'ipostatizzare il concetto di Uno nell'unica divinità del monoteismo: l'Aton di Akhenaton e dell'Inno del Sole, che veniva chiamato « il Tutto »; lo Yahvè di Mosè e del Pentateuco, che pretendeva di essere «l'unico vero»; il Cristo di Paolo e dei Vangeli, che si autoproclamava «la Verità»; e l'Allah di Maometto e del Corano, che tanto per cambiare è wahid, «uno».
Quanto alla religione dei Greci, abbiamo già ricordato il ruolo singolare di Apollon, il cui nome significava appunto «Uno». E c'era poi naturalmente l'altrettanto singolare Zeus, padre degli dèi, che nell'Iliade (VIII, 22) Omero chiama «l'Altissimo»: un appellativo che è ancor oggi usato dalla Chiesa per il suo Zeus. Chi poi storcesse il naso di fronte a un monoteismo con due dèi, Padre e Figlio, non dovrebbe dimenticare che quello cristiano ne ha addirittura tre: ovvero, che religione e logica vivono su pianeti diversi.
Torniamo allora al nostro pianeta, in particolare all'eleatismo. Il quale, comunque, non fu estraneo al monoteismo, che era stato esplicitamente proposto e difeso dal suo primo esponente: Senofane, ispiratore e forse maestro di Parmenide. Il suo era un dio unico, eterno e immortale, immobile e immutabile, assolutamente non antropomorfo, che «tutto vede, tutto pensa e tutto ode »: insomma, una versione religiosa dell'essere parmenideo e come questo di forma perfettamente sferica. D'altronde, come disse Borges in Pascal: « La storia non registra dèi conici, cubici o piramidali, ma solo idoli. Mentre la forma della sfera è perfetta e conviene alla divinità ».
Sfera a parte, gli argomenti di Senofane erano dello stesso tipo di quelli di Parmenide e dunque da dimenticare. Indimenticabili, e perciò vera espressione dell'aletheia nel suo senso più letterale, sono invece i paradossi inventati da Zenone, non solo allievo di Parmenide, ma anche suo amante, secondo quel pettegolo di Diogene Laerzio. Il quale racconta anche che il filosofo, per incitare alla rivolta i concittadini contro il tiranno, si mozzò la lingua coi denti e la sputò loro in faccia.
Continua
 
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cuorimeccanici
view post Posted on 28/10/2008, 20:18




QUARTA LEZIONE: LA LOGICA DA PARMENIDE A ZENONE (SECONDA E ULTIMA PARTE).
Gli argomenti di Zenone sono una quarantina, ma ne basteranno quattro a dare un saggio, o un assaggio, della capacità dialettica e dell'abilità letteraria del loro autore. Tutti sono rivolti a sostenere le tesi di Parmenide, mostrando la problematicità delle tesi contrarie: in particolare, della molteplicità e del movimento.
Per quanto riguarda la prima, Zenone considera due casi, a seconda che un composto sia costituito di un numero finito o infinito di componenti. Nel primo caso propone il paradosso del sorite, che prende il nome da sorós, «mùcchio »: un chicco di miglio non fa rumore cadendo; ma allora nemmeno due fanno rumore, perché si è aggiunto un solo chicco; e allora nemmeno tre, e cosi via. Però un mucchio di miglio fa rumore! In realtà, più che un paradosso questo è un ragionamento sbagliato, benché per ragioni sottili. Perché è vero che un chicco non fa rumore da solo, ma non è vero che un chicco non fa mai la differenza: come recita il detto, c'è «una goccia che fa traboccare il vaso ». Oppure, in termini un po' più tecnici, esistono « valori di soglia » o « masse critiche » che, se raggiunte, fanno scattare ciò che sotto quella soglia o quella massa non scattava.
Nel secondo caso, di un composto con infinite componenti di uno stesso tipo, Zenone propone quello che oggi chiameremmo il paradosso degli infinitesimi: se le componenti hanno massa limitata, allora il composto dovrebbe avere massa infinita; se invece le componenti hanno massa nulla, allora il composto dovrebbe avere massa nulla. In entrambi i casi, non sarebbero possibili composti di massa finita. Il problema si ripropose tale e quale nel Seicento nell'analisi infinitesimale e fu risolto soltanto nel Novecento, con l'introduzione di un tipo particolare di numeri « iper-reali », la cui considerazione ci porterebbe però fuori strada qui.
Per quanto riguarda il movimento, Zenone propose anzitutto una confutazione basata sul paradosso della freccia: com'è possibile che la freccia si muova, se in ogni istante è sempre ferma? Oggi noi possiamo tradurre la cosa nel paradosso del cinema: come si possono vedere immagini dinamiche, se ogni fotogramma della pellicola è statico? Ancora una volta, la soluzione non è affatto banale e si basa su due fenomeni complementari. Anzitutto, la persistenza dell'immagine sulla retina oculare: la soglia di frequenza, oltre la quale non ci accorgiamo più del cambiamento delle immagini, è di cinquanta al secondo. Inoltre, il cosiddetto « fenomeno psi », che fa percepire due punti in posizioni vicine e in istanti successivi come un unico punto in movimento: un effetto che si sfrutta, ad esempio, nei segnali autostradali e nelle insegne luminose.
La seconda confutazione del movimento di Zenone è, forse, il suo argomento più famoso (oltre che uno dei più riusciti esempi di divulgazione della storia). Si tratta del paradosso di Achille e della tartaruga, una variazione sulla favola di Esopo in cui una lepre sfida una tartaruga alla corsa, compie l'errore di fermarsi a fare un pisolino durante il percorso e si sveglia dopo che la tartaruga è ormai arrivata. Morale: « Non serve saper correre, bisogna partire in tempo ». Ispirandosi alla corsa di Achille dietro Ettore nel libro XXII dell''Iliade e riportando l'argomento nell'ambito omerico, Zenone sostituì la lepre con l'eroe greco e, questa volta, gli fece compiere l'errore di concedere alla tartaruga un vantaggio qualunque: allora, non riuscirà più a raggiungerla, perché dopo che lui avrà colmato il primo vantaggio, la tartaruga si sarà spostata di un po'; e dopo che lui avrà colmato questo po', la tartaruga si sarà spostata di un altro po', e così via.
Sostanzialmente il medesimo argomento dimostra anche altri due paradossi di Zenone: che non soltanto non si può essere in movimento, ma non si può né partire, né arrivare. Perché, ad esempio, per andare da un punto all'altro bisogna anzitutto percorrere la prima metà della distanza che li separa; e prima di percorrere la metà, bisogna percorrerne un quarto, e così via. Oppure, per arrivare, bisogna anzitutto percorrere la prima metà della distanza; e poi la metà della rimanente, cioè un quarto; e poi la metà della rimanente, cioè un ottavo, e così via. Ancora una volta, il problema è stato risolto soltanto nel Seicento, quando si capì che una quantità infinita di termini poteva (anche se non necessariamente doveva) avere una somma finita, purché i termini diventassero sempre più piccoli, com'è appunto il caso della corsa di Achille e la tartaruga e delle sue variazioni: ad esempio, una metà, più un quarto, più un ottavo, e così via, da come risultato uno, cioè appunto tutta la distanza da percorrere se si vuole arrivare. Anzi, questo fu il punto di partenza della moderna, teoria delle serie convergenti, che ha trovato innumerevoli applicazioni nella matematica e nella scienza.
Anche di quest'ultimo argomento di Zenone possiamo, dunque, ripetere ciò che avevamo detto di quello di Eubulide: che è una bella storia, con i rari vantaggi dell'acutezza e della concisione. E che anch'essa è stata variamente utilizzata a fini letterari e artistici, oltre che filosofici e logici.

N.B. Come già fatto notare, gli approfondimenti presentati su questo forum sono pagine scannerizzate dal saggio di Odifreddi: "Le menzogne di Ulisse". Le ho presentate in questa sede a buon pro di tutti gli studenti che vogliano arricchire i propri appunti presi in classe. Questo non significa affatto che chi non voglia consultare queste pagine non potrà sostenere la verifica; se avrà preso appunti corretti e completi, non avrà un'insufficienza, probabilmente. Infatti, in classe è stato fatto ascoltare a TUTTI gli studenti il cd di Odifreddi che tratta dei medesimi argomenti. Lo preciso perchè non vorrei sentire scuse del tipo: "Io non entro nel sito dell'Omero, quindi se prenderò un'insufficienza non sarà dipeso da me". Spero d'essere stato sufficientemente chiaro. Ciao giovani menti!
 
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le chat macabre
view post Posted on 29/10/2008, 13:46




CITAZIONE
N.B. Come già fatto notare, gli approfondimenti presentati su questo forum sono pagine scannerizzate dal saggio di Odifreddi: "Le menzogne di Ulisse". Le ho presentate in questa sede a buon pro di tutti gli studenti che vogliano arricchire i propri appunti presi in classe. Questo non significa affatto che chi non voglia consultare queste pagine non potrà sostenere la verifica; se avrà preso appunti corretti e completi, non avrà un'insufficienza, probabilmente. Infatti, in classe è stato fatto ascoltare a TUTTI gli studenti il cd di Odifreddi che tratta dei medesimi argomenti. Lo preciso perchè non vorrei sentire scuse del tipo: "Io non entro nel sito dell'Omero, quindi se prenderò un'insufficienza non sarà dipeso da me". Spero d'essere stato sufficientemente chiaro. Ciao giovani menti!

il guaio è che non tutti gli studenti hanno ascoltato integralmente il cd di Odifreddi, anzi noi IIIA abbiamo potuto apprendere solo quanto spiegato nei primi 10/15 minuti di cd. di conseguenza nessuno di noi possiede gli appunti di tali lezioni e qualora non vogliamo prendere un'insufficienza nella verifica siamo costretti a leggere integralmente questi "approfondimenti" di scienze, di cui invece gli altri studenti possono fruire in modo libertario. sicuramente questi approfondimenti sono più esaurienti e dettagliati dell'Odifreddi, ci tenevo solo a precisare la diversità della fonte delle nozioni necessarie per passare la verifica.
 
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cuorimeccanici
view post Posted on 29/10/2008, 20:10




...esattamente! :)
 
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le chat macabre
view post Posted on 29/10/2008, 22:26




right, right.
 
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cuorimeccanici
view post Posted on 29/10/2008, 23:20




Considerando che scienze l'avete mercoledi e sabato e che il prossimo sabato è vacanza, ritengo che sia opportuna la data di mercoledi 5 novembre, sia per la terza a, sia per la terza b. In fondo, avete il ponte dell'uno novembre a disposizione per recuperare un po' di studio dei giorni scorsi.
 
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le chat macabre
view post Posted on 30/10/2008, 12:15




prof, sento di parlare a nome di tutta la IIIA quando le chiedo di non anticipare il compito (che era già stato pattuito per sabato 8 novembre), in quanto il giorno prima 4 novembre avremmo già da preparare una verifica di latino, una di inglese, e varie interrogazioni. non riusciremmo fisicamente a preparare anche un test di scienze per il giorno dopo.
aggiungo che un buon numero di miei compagni non è assolutamente in grado di procurarsi gli appunti di logica immediatamente in quanto non sa usare internet o il computer, e sto quindi provvedendo io a dispensare loro tali appunti, che riceveranno solamente domani.
 
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cuorimeccanici
view post Posted on 30/10/2008, 17:02




CITAZIONE (le chat macabre @ 30/10/2008, 12:15)
prof, sento di parlare a nome di tutta la IIIA quando le chiedo di non anticipare il compito (che era già stato pattuito per sabato 8 novembre), in quanto il giorno prima 4 novembre avremmo già da preparare una verifica di latino, una di inglese, e varie interrogazioni. non riusciremmo fisicamente a preparare anche un test di scienze per il giorno dopo.
aggiungo che un buon numero di miei compagni non è assolutamente in grado di procurarsi gli appunti di logica immediatamente in quanto non sa usare internet o il computer, e sto quindi provvedendo io a dispensare loro tali appunti, che riceveranno solamente domani.

Gli argomenti che adduci hanno un certo peso. accondiscendo alla tua richiesta. sabato 8 allora.

anche se, a dire il vero, non sapere usare internet o addirittura il computer (nemmeno per giocare?) è francamente preoccupante alla vostra età e in questa epoca storica.
 
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le chat macabre
view post Posted on 30/10/2008, 23:04




CITAZIONE (cuorimeccanici @ 30/10/2008, 17:02)
CITAZIONE (le chat macabre @ 30/10/2008, 12:15)
prof, sento di parlare a nome di tutta la IIIA quando le chiedo di non anticipare il compito (che era già stato pattuito per sabato 8 novembre), in quanto il giorno prima 4 novembre avremmo già da preparare una verifica di latino, una di inglese, e varie interrogazioni. non riusciremmo fisicamente a preparare anche un test di scienze per il giorno dopo.
aggiungo che un buon numero di miei compagni non è assolutamente in grado di procurarsi gli appunti di logica immediatamente in quanto non sa usare internet o il computer, e sto quindi provvedendo io a dispensare loro tali appunti, che riceveranno solamente domani.

Gli argomenti che adduci hanno un certo peso. accondiscendo alla tua richiesta. sabato 8 allora.

grazie. :B):

CITAZIONE
anche se, a dire il vero, non sapere usare internet o addirittura il computer (nemmeno per giocare?) è francamente preoccupante alla vostra età e in questa epoca storica.

le do pienamente ragione, ma a dimostrazione di ciò basta dire che io sono il solo della mia classe ad essere iscritto al forum sin dalla IV ginnasio. -_-
 
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Cheshire*Cat
view post Posted on 31/10/2008, 13:53





CITAZIONE
le do pienamente ragione, ma a dimostrazione di ciò basta dire che io sono il solo della mia classe ad essere iscritto al forum sin dalla IV ginnasio. -_-

Gli altri si son persi per strada :ph34r: :ghigno:
 
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cuorimeccanici
view post Posted on 2/11/2008, 18:23




mercoledi 5 novembre c'è la verifica di scienze per la TERZA B (logica e minerali), SECONDA A e SECONDA B (logica, A1, A2, B1 e B2).
 
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91 replies since 26/10/2008, 22:21   2846 views
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